Diamo qui di seguito la traduzione dell’intervista rilasciata il 2 maggio 2012 dal direttore di “Eurasia” alla radio ungherese “Szent Korona Radio”.
Sz. K. R. – Claudio Mutti, direttore del periodico “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, è un valido studioso del folclore centroeuropeo e, in questa cornice, delle tradizioni popolari ungheresi. Diversi suoi saggi sono stati tradotti in ungherese. Inoltre, Mutti ha tradotto alcune opere di Béla Hamvas, tra le quali segnaliamo Alberi, apparsa in italiano pochi mesi fa. Signor Mutti, il sito informatico di “Eurasia” ha pubblicato nei giorni scorsi una traduzione italiana della nuova Costituzione ungherese. “Eurasia” considera importanti, da un certo punto di vista, gli attuali sviluppi della politica ungherese. Qual è la Sua opinione a tale riguardo?
C. M. – In seguito all’approvazione della nuova Costituzione, forze ideologiche e politiche sostenute dal potere bancario occidentale hanno intentato un vergognoso processo contro l’Ungheria, alimentando nel suo popolo sentimenti euroscettici o addirittura eurofobici. Questa situazione potrebbe indurre gli Ungheresi a rivolgere altrove il proprio sguardo, tant’è vero che il “Washington Post” ha ipotizzato che l’Ungheria possa diventare un avamposto della Russia. In ogni caso, all’Ungheria si presenta oggi la possibilità di instaurare un rapporto costruttivo con quel nucleo eurasiatico che, nato dall’accordo russo-bielorusso-kazako, presto si estenderà alla confinante Ucraina. Paese reietto in un’Unione Europea indegna di questo nome, l’Ungheria potrebbe svolgere il ruolo di avanguardia europea nella costruzione di un nuovo ordine eurasiatico.
Sz. K. R. – Conosciamo i Suoi studi sul folclore ungherese e su quello romeno. In che modo il Suo interesse è stato attratto da questo campo di studi?
C. M. – Cominciai ad interessarmi ai canti popolari ungheresi negli anni in cui studiavo lingua e letteratura ungherese all’università. Fui indotto a ciò dalla lettura delle pagine in cui Guénon e Coomaraswamy sostengono che la memoria popolare ha custodito, sebbene allo stato residuale e frammentario, elementi provenienti da forme tradizionali vere e proprie, per cui le fate e gli eroi delle fiabe sono in origine dèi e dee. In effetti il patrimonio etnografico ungherese ha conservato temi e simboli d’origine sciamanica che risalgono al periodo precedente l'”occupazione della patria” e rinviano ad una vasta area culturale eurasiatica. Analogo è il caso del folclore romeno: come fa notare Mircea Eliade, esso affonda le sue radici in un universo di valori spirituali antichissimo, che rivela l’unità fondamentale non solo dell’Europa, ma di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina.
Sz. K. R. – Lei è considerato uno dei portavoce più autorevoli della visione eurasiatista, che ispira posizioni politiche antiglobaliste, antimperialiste e antiamericane. Ci può sinteticamente illustrare questa concezione?
C. M. – Il presupposto della visione eurasiatista è espresso da Mircea Eliade, quando ci ricorda che esiste una “unità fondamentale non solo dell’Europa, ma di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon”. Sul piano geopolitico, a questo concetto corrisponde il progetto di un raccordo tra i “grandi spazi” in cui il continente eurasiatico si articola: quello russo, quello estremo-orientale, quello indiano, quello islamico, quello europeo. Alcuni di questi grandi spazi sono già adesso riuniti intorno ad un “polo” geopolitico (ad esempio la neonata Unione Eurasiatica), mentre altri sono ancora privi, del tutto o in parte, di unità e di sovranità politica e militare. Quest’ultimo è il caso dell’Europa, la quale, vincolata agli Stati Uniti d’America per mezzo della NATO e governata da classi politiche collaborazioniste, ha saputo esprimere soltanto una precaria unità economica e monetaria.
Sz. K. R. – In quale misura, secondo Lei, la concezione e la strategia geopolitica dell’eurasiatismo concorda con le posizioni della destra radicale? In quale misura le contrasta?
C. M. – L’estrema destra europea è una nebulosa in cui si mescolano tendenze contraddittorie. Fra il 1945 e il 1989, individuando il nemico principale nel comunismo, essa si è schierata su posizioni di “difesa dell’Occidente” che l’hanno automaticamente portata a solidarizzare con l’imperialismo statunitense. Una volta scomparso il comunismo, l’estrema destra europea ha per lo più trovato nuovi nemici ad est e a sud, indirizzando le proprie energie contro gl’immigrati e lanciando l’allarme contro il “pericolo islamico” o il “pericolo giallo”. Attribuendo un valore assoluto all’appartenenza alla “razza bianca”, alcuni movimenti di estrema destra si sono condannati a svolgere il ruolo di pedine sulla scacchiera dello “scontro di civiltà”; altri gruppi si sono ulteriormente involuti passando dal piccolo nazionalismo al localismo; altri ancora si sono sclerotizzati nella celebrazione del carnevale neospiritualista o pseudopagano. Esistono, naturalmente, lodevoli eccezioni; ma il quadro generale è desolante.
Sz. K. R. – Osservando i recenti avvenimenti del Vicino Oriente, che cosa pensa che ci riservi il futuro? Penso innanzitutto alla situazione siriana ed all’Iran.
C. M. – L’aggressione all’Iran, a lungo sollecitata dal regime sionista, è già cominciata con l’attacco terroristico alla Siria, patrocinato ed appoggiato da forze occidentali o alleate dell’Occidente. Questa nuova fase della strategia statunitense appartiene, in fin dei conti, al progetto geostrategico elaborato da Nicholas J. Spykman nel corso della Seconda Guerra Mondiale, secondo il quale gli USA devono controllare il bordo esterno (Rimland) del continente eurasiatico: dalle coste atlantiche e mediterranee dell’Europa fino al Giappone e alla Corea, passando per il Vicino ed il Medio Oriente, il Sudest asiatico, le Filippine e Taiwan. Solo in questo modo, accerchiando e strangolando il territorio centrale (Heartland) eurasiatico, gli USA possono conquistare stabilmente il potere mondiale. La crisi economica odierna – che ha gravemente compromesso l’egemonia unipolare statunitense – induce gli USA ad accelerare i tempi. Già in passato, d’altronde, gli USA hanno fatto ricorso alla forza militare per risolvere le crisi economiche. Così, anche questa volta siamo alle soglie di una guerra mondiale.