Le quattrocento e sessantaquattro pagine del saggio del “balcanologo” francese Georges Castellan sulla Storia del popolo romeno (Argo, 2011, euri 26) sono un evento editoriale e culturale da salutarsi con gioia, ché era dal 1972, quando Editori Riuniti pubblicò un omonimo volume, questa volta collettaneo, comprendente la storia romena dagli albori daci sino all’anno di uscita, che in Italia non appariva un’opera consimile. Se si escludono alcuni esigui studi sulla Romania contemporanea[1] e qualche distratta pagina sparsa qua e là sulle vicende del 1989, all’oggi il testo di Castellan, professore emerito dell’Università di Paris III, risulta essere l’unico testo nella nostra lingua a occuparsi di svolgere le millenarie vicende di questo popolo fratello.
Tuttavia, nonostante l’indubbio merito del docente (noto in Francia per essere uno dei massimi esperti della storia euro-orientale e del quale in Italia sono già usciti per il medesimo editore Argo una Storia dell’Albania e degli albanesi e una Storia dei Balcani. XIV-XX secolo ed è annunciata una Storia della Bulgaria), il libro risente di alcuni difetti di cui dobbiamo render conto.
Uno dei primi, che si riscontrano per esempio scorrendo l’«Indice dei nomi, dei luoghi e dei popoli», è l’assenza di Mircea Eliade (1907-1986), il più noto studioso di religioni al mondo e autore di diversi studi sulla Romania e sul popolo romeno, e di Nicolae Densusianu, nome meno noto ma non per questo meno importante, autore del poderoso testo sulla Dacia preistorica, pietra miliare negli studi sulle origini di romeni. Assenze che, sebbene il testo del Capitolo I su «Preistoria e antichità. I daci e la provincia romana» sia una non trascurabile fonte di notizie (parliamo per chi non abbia soverchia contezza dell’argomento), non si spiegano affatto in un lavoro composto da una persona nota quale esperto di simili questioni e a cui non riusciamo a trovare una seppur minima giustificazione oggettiva.
L’assenza di Eliade da queste pagine si connette a un’altra duplice assenza, ossia quella dei due più importanti miti del popolo romeno, vale a dire la Miorita e Mastro Manole, cui tutti i romeni, da secoli, si abbeverano. Tale assenza si può spiegare, come in parte anche quella di Densusianu, con l’ormai inveterato vizio delle spirito moderno d’espungere qualsivoglia riferimento al mito e limitarsi (nel senso peggiore del termine) a una visione scientista e progressista della storia, che appunto escluda ciò che, invece, fonda, anche solo a livello psicologico, l’anima d’un popolo. La mancanza di riferimenti alla Miorita e a Mastro Manole equivale a espellere, ad esempio, da una storia di Roma, il mito di Romolo e Remo e della Lupa.[2]
Il capitolo dedicato alla Guardia di Ferro riflette invece – sebbene in misura minore rispetto ad altri autori di cui altrove lo scrivente ha trattato – il consueto pregiudizio nei confronti di quest’organizzazione e la sostanziale incomprensione del «fenomeno legionario», come lo chiamò il filosofo Nae Ionescu, una delle teste pensanti più sfavillanti dei primi anni del Novecento in Romania (e “padre spirituale” degli intellettuali della «nuova generazione»), anch’egli del tutto assente dal testo di Castellan.[3] Le pagine dedicate alla Guardia di Ferro si riducono a sei scarse e portano il titolo di «Fascismo romeno», indice di un’incomprensione piuttosto profonda, che liquida la Legione Arcangelo Michele nell’indefinito novero, appunto, dei fascismi europei, quando, almeno in Italia, è stato ampiamente dimostrato, sia dallo scrivente sia soprattutto da Claudio Mutti e Mariano Ambri nei loro studi sull’argomento, quanto tale collocazione, sebbene a tutta prima possa anche apparire giustificata, crolli sotto la lente di chiunque conosca sia il fenomeno in sé sia l’ambiente storico politico e culturale, nonché religioso, entro cui esso si sviluppò.
Che la manciata di pagine dedicate al fenomeno legionario siano così sbrigative e soprattutto affette da pregiudizio, deriva dal fatto – che ci pare esser più che certo – che la fonte cui Castellan attinge è del tutto inattendibile. Si tratta del libro della sua compatriota Alexandra Laignel-Lavastine, autrice di un testo intitolato Cioran, Eliade, Ionesco. L’oubli du fascisme: trois intellectuels roumains dans la tourmente du siècle, pubblicato in Francia nel 2002 e in Italia nel 2008 col titolo Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionescu. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, in cui tutti i luoghi comuni triti e ritriti sull’argomento campeggiano in ogni pagina. Che la fonte di Castellan sia questa, lo evinciamo non solo dal fatto che ambedue sono francesi e che la Laignel-Lavastine è una delle “studiose” più note in Francia dell’argomento, ma soprattutto da una frase attribuita a Corneliu Zelea Codreanu – «Quarantotto ore dopo la nostra vittoria, noi ci alleeremo con la Germania e con l’Italia» – presente anche nella versione italiana sebbene con traduzione differente. Ebbene, tale frase, a quanto ci risulta, non è mai stata né scritta né pronunciata dal Capitano. E infatti né la Laignel-Lavastine né Castellan citano la fonte originale. È d’altra parte difficile inoltre che Castellan – tale osservazione valga per tutto il libro – abbia potuto attingere a fonti originali, dacché, scorrendo la bibliografia al fondo del volume, peraltro non vasta, non ci s’imbatte nemmeno una volta in un titolo originale romeno, avendo evidentemente l’autore adoperato solo saggi in lingue occidentali.[4]
Spostandoci in anni più recenti, alla pagina 360 si sobbalza nel leggere che Nicolae Ceausescu «partì per un breve soggiorno in Iran, del quale ignoriamo tutto». Affermazione davvero incredibile, nel senso vero e proprio del termine, dacché oggi le notizie circa quel viaggio, svoltosi nei giorni avanti la caduta del regime, sono di dominio pubblico, ancorché – è nostro obbligo evidenziarlo – si sia cercato da più fronti di minimizzare l’importanza di quella che si presentava come una vera e propria missione diplomatica prevista già da tempo e con implicazioni di portata davvero importante. Anche qui stupisce che un esperto di storia dei Balcani e della Romania liquidi la questione in siffatto modo, che lascia intravvedere una superficialità piuttosto pronunciata oppure un’autocensura.[5]
Ambigua è anche la seguente affermazione, secondo cui «restano molti punti oscuri su quelle quattro giornate che vennero chiamate “rivoluzione” ma che, in realtà, furono un “complotto di palazzo”, organizzato da dissidenti della nomenclatura […]» (p. 361). Nonostante l’onestà di non ostinarsi a parlare, come ancora oggi molti “studiosi” ed “esperti” seguitano a fare, di rivoluzione senza implicazioni golpiste, in tale affermazione e in generale in tutta la parte relativa al crollo del regime ceausista non sono accolte le differenti informazioni che, nel corso degli anni, sono emerse per rettificare la versione ufficiale della storia. Per esempio la figura di Mihail Gorbaciov passa indenne al (mancato) setaccio di Castellan, che la rappresenta come un semplice riformatore che «si sforzava di far evolvere il sistema sovietico» (p. 357). Anche le modalità di sostituzione dei capi degli altri Stati afferenti al blocco sovietico risulta, sotto la penna di Castellan, come qualcosa di pacifico, spontaneo e naturale, quando invece è noto piuttosto il contrario.
Una parola va spesa anche per la traduzione, per opera di Anna Rita Galeone, la quale, ancorché dimostri una notevole conoscenza della lingua francese, non pare abbia invece idea dell’argomento che sta affrontando e, men che meno, della lingua romena. Un solo esempio: alla p. 364 si parla di «minatoriade», in riferimento ai massacri di civili inermi ordinati da Ion Iliescu tra il 1990 e il 1991. Gli è che il termine corretto è, in romeno, mineriade (pl. di mineriada, da mineri, ovvero «minatori» appunto), termine presocché intraducibile se non a condizione di riuscire con espressioni piuttosto goffe quale quella testé citata. Tale osservazione, tuttavia, ci porta a elogiare Castellan per aver fatto riferimento a questi gravi fatti, ferita ancor oggi aperta in Romania, sconosciuti in Occidente e dei quali solo oggi s’inizia a parlare.[6]
Un altro problema che presenta questa Storia del popolo romeno riguarda il periodo precedente la salita al potere di Gheorghe Gheorghiu-Dej, ossia il periodo propriamente sovietico, successivo all’installazione dei carri armati moscoviti sul territorio romeno. Tra i tanti esempi di lacune, possiamo citare quella riguardante l’Esperimento Pitesti, già definito da Solgenitsin «la più orribile barbarie del mondo contemporaneo», su cui negli ultimi si è scritto non poco e soprattutto in Francia, Paese di Castellan, da parte di studiosi romeni emigrati e non solo. Tra tutti possiamo citare Virgil Ierunca (nato in Romania, a Ladesti, 1920 e morto a Parigi nel 2006), autore di diverse pagine sull’Esperimento,[7] nonché marito della notissima dissidente e studiosa Monica Lovinescu, appartenente a un famiglia di intellettuali romeni di gran notorietà (assenti anch’essi).[8]
Altre assenze eccellenti sono quelle di Ion Luca Caragiale (1852-1912) e di Ion Creanga (1837-1889) – citati solo una volta di passaggio – che sono tra i più importanti e letti scrittori romeni, ed è come se da una storia degli italiani con analoghe pretese, mancassero Luigi Pirandello o Carlo Collodi. Ma l’assenza più vistosa è quella di Mihai Eminescu, il poeta e scrittore nazionale per eccellenza, un Dante, un Leopardi o un Carducci romeno per fama e importanza; e non solo per motivi esclusivamente culturali, quanto storico-politici. Infatti Eminescu, oltre che poeta, fu prolifico autore di saggi e articoli pubblicati sulla stampa dell’epoca e concernenti questioni politiche di rilevanza fondamentale, tanto che la sua produzione maggiore, per estensione, è quella pubblicistica e non già poetica.
Nessuna traccia anche di quegli scrittori romeni emigrati nei primi decenni del Novecento, quali per esempio Emil Cioran e soprattutto Vintila Horia (1915-1992). Sebbene del primo sia citata – tutto qui – una frase in esergo,[9] del secondo non si fa mai nemmeno distratta menzione. Vintila Horia è l’autore del celebre Dieu est né en exil (Dio è nato in esilio, pubblicato in Italia nel 1961 dalle Edizioni del «Borghese») e vincitore del prestigioso Premio Goncourt, che poi rifiutò a causa delle pressioni politiche dovute alla “scoperta” che alcuni intellettuali francesi marxisti avevano fatto circa la sua vicinanza al Fascismo italiano e in generale a idee considerate “fasciste”. Da soggiungere c’è che ad aver suggerito alla giuria del Goncourt il nome di Horia per il primo premio fu un intellettuale non certo sospetto di simpatie fasciste, vale a dire Jean-Paul Sartre.
Distratte e superficiali sono anche le pagine dedicate alla storia dell’Ottocento, e soprattutto alla sua seconda metà, quando la Romania entrò politicamente a far parte dell’Europa occidentale essendo stata coinvolta nei moti rivoluzionari che portarono poi in Italia al cosiddetto Risorgimento e quando terminò la dominazione ottomana. Al contrario di quanto si possa credere la Romania ebbe grande parte in causa nel fenomeno rivoluzionario di quell’epoca e i rapporti diplomatici con i Paesi euro-occidentali, e in particolar modo con l’Italia di Cavour, erano strettissimi e intensi.
Per motivi di spazio abbiamo preferito concentrare la nostra critica sugli aspetti più noti della storia romena e non addentrarci in questioni troppo specialistiche o dettagliate: ciò però non significa affatto, anzi, che anche molte altre parti di questo libro, e sotto molteplici punti di vista, non siano a dir poco carenti.
Il presente studio accusa la pigrizia di questi tempi svogliati, presente financo tra gli specialisti, i quali, al contrario, dovrebbero invece, non foss’altro che si occupano solo di determinati argomenti, non lasciare nulla o quasi d’intentato.
Il lavoro di Georges Castellan risulterà utile ai digiuni che vogliano avere un’infarinatura della storia romena; ma a quanti già studino e conoscano non solo superficialmente l’oggetto di tale indagine, la lettura di questa Storia del popolo romeno non potrà essere più utile di quanto lo possa essere un’estesa voce d’enciclopedia. L’ennesima dimostrazione che l’Italia è ancora incapace di scrivere o di importare, fatte salvo rarissime e neglette eccezioni, studi seri e completi sulla storia della Romania, la quale, ben lungi per gli italiani dall’essere un argomento esornativo, dovrebbe costituire un punto nodale d’indagine, in nome d’una cultura, sì, scomparsa dalle membra vive di questa civiltà europea, ma che almeno nei libri avrebbe e ha diritto a un’esistenza più dignitosa e onesta.
[1] A. Biagini, Storia della Romania contemporanea, Bompiani, Milano, 2004; F. Guida, Romania, Edizioni Unicopli, 2009 e La Romania contemporanea, in «Rivista della Fondazione Europea Dragan», Edizioni Nagard, Milano, 2003; D. Pommier Vincelli, La Romania dal comunismo alla democrazia. Momenti di storia internazionale, Edizioni Nuova Cultura, 2008.
[2] Avviene però sovente che gli studiosi moderni si occupino di tali questioni senza avere la benché minima idea, fosse pur circoscritta alla semplice storia delle religioni, di che cosa sia realmente il mito. In entrambi i casi siamo davanti a un supino appiattimento intellettuale a posizioni eminentemente moderne, che, ai nostri occhi, risultano, sotto un certo punto di vista speciale, del tutto inutili e, pertanto, trascurabili.
[3] Tra gli intellettuali romeni che non compaiono nel libro c’è anche Constantin Noica (1909-1987), tra i filosofi romeni più rappresentativi e accostabile, per temi trattati e potenza di pensiero, a Martin Heidegger.
[4] In relazione a ciò e a quanto detto più sopra circa il mito, possiamo indicare un’altra grave assenza dal testo di Castellan, ossia quella di Vasile Lovinescu, i cui testi, in particolare Dacia hiperboreana, costituiscono uno strumento fondamentale, sotto l’aspetto della storia sacra ma non solo, per la comprensione della Romania. Notiamo ancora che, però, i testi di Lovinescu sono stati tradotti anche in francese.
[5] Se il lettore fosse interessato ad approfondire la faccenda, ci permettiamo di rimandare alla nostra Postfazione, «Il fango e la neve. Romania 1989-Duemila», in appendice al volume di Grigore Cartianu, da noi curato e tradotto, intitolato La tragica fine dei Ceausescu. Morire ammazzati come bestie selvatiche (Aliberti editore, 2012), in cui troverà tutte le fonti possibili sulla questione.
[6] Ci permettiamo ancora di rimandare alla nostra citata Postfazione.
[7] In Francia, nel 1996, fu pubblicato il suo testo Pitesti, laboratoire concentrationnaire (1949-1952) con prefazione niente meno che di Francois Furet. Un approfondimento sul problema per il lettore italiano può venire da D. Fertilio, Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra, Marsilio, Venezia, 2010 e da Il libro nero del comunismo europeo. Crimini, terrore, repressione, a cura di S. Courtois, Mondadori, Milano, 2007, pp. 295-352.
[8] Monica Lovinescu era imparentata con il citato Vasile Lovinescu e con il critico letterario Eugen e con il noto drammaturgo Hori[9] «In Europa, la fortuna finì a Vienna. Dopo, maledizione su maledizione, da sempre» (De l’inconvénient d’être né). Per quanto Cioran sia uno dei romeni più noti nel mondo e tra i più raffinati scrittori in lingua francese del Novecento, egli, a nostro giudizio, non rappresenta minimamente la Romania e il suo spirito, pertanto la scelta di tale epigrafe, se non con il fatto che Cioran è appunto autore molto letto nella patria di Castellan, non si giustifica affatto.