Che cos’è, insomma, l’Europa? Lontano da qui, disseminata tra Bruxelles e Strasburgo, c’è una selva di edifici in acciaio e cristallo, di uffici lussuosi, di sale da riunione e da conferenza; una pletora di dirigenti, di parlamentari, di funzionari, d’interpreti e di consulenti ben pagati, qualcuno strapagato; una Commissione Europea, un Consiglio d’Europa, un parlamento Europeo, ma nessun leader nel quale la gente possa identificarsi o col quale possa prendersela se e quando le cose vanno male. C’è una Banca Centrale Europea che non è pubblica, quindi è in mano ai suoi anonimi o semianonimi azionisti: stampa euri e detta legge sui nostri bilanci e sulle nostre tasche. C’è una bandiera azzurra e stellata, bella ma àlgida, sulla quale non ha mai pianto nessuno, che non ha mai avvolto la bara di un ragazzo morto per difenderla, che quando sventola fa un bell’effetto ma non commuove. C’è un inno preso in prestito da Beethoven, bellissimo, ma le parole di Schiller che lo accompagnano quasi nessuno le conosce e comunque sarebbero inadatte a esser cantate: e nessuno ha mai pensato sul serio a scrivere un testo che potrebbe rappresentare i sentimenti collettivi di tutti i ventisette stati membri ed esser tradotto in tutte le loro lingue. Non c’è un esercito europeo, perché l’organizzazione militare comunitaria è in realtà quella della NATO, egemonizzata da una potenza che sarà anche amica ed alleata, ma ch’è pur sempre straniera: un’organizzazione che ad esempio impone (la notizia è di metà aprile) l’organizzazione di un costoso “scudo” antimissilistico non si capisce né chiesto da chi né utile a chi né indirizzato a difenderci dalle minacce di chi. I paesi europei hanno rinunziato alla sovranità economico-monetaria, a quella diplomatica, a quella difensiva, ma tali forme di sovranità non sono gestite da nessun vero e proprio governo sovranazionale. L’Unione Europea non ha ancora deciso nemmeno se organizzarsi in Federazione all’americana o alla tedesca o in Confederazione alla svizzera.
Eppure, questa larva semisconosciuta e non amata dai suoi cittadini chiede continui sacrifici, impone tagli e balzelli. E dappertutto sorgono ormai, contro di essa, gruppi e movimenti che da “euroscettici” si stanno trasformando sempre più in veri e propri antieuropeisti: nostalgici delle piccole patrie che c’erano prima o utopisti che rivendicano la fondazione o la resurrezione di patrie mai esistite oppure defunte da secoli. Partiti ostili all’Europa stanno sorgendo dappertutto, e in molte nazioni assumendo il potere, com’è accaduto in Ungheria. In Francia, sembra che l’ago della bilancia per l’elezione del nuovo presidente sia costituito dagli antieuropeisti del Front National, oggi corteggiato sia da Sarkhozy, sia da Hollande.
Eppure, l’”Unione non unita” ha avuto una primavera, è stata una speranza e addirittura un ideale. Ne so qualcosa io, che me ne innamorai ventenne, nel 1960, dopo aver ascoltato alla TV una breve, commossa allocuzione del cancelliere Konrad Adenauer dove si parlava di quest’Europa ch’era una patria da amare per tutto quel che aveva e che significava: per le cicogne sui tetti di Norimberga, per i vigneti della Borgogna, per la pianura infinita della Meseta, per il mare di Capri; ma soprattutto per la sua storia tormentata eppure tanto “profondamente nostra”, per le guerre fratricide che avevamo combattuto e che non dovevano più dividerci, per le comuni radici cristiane testimoniate dalle nostre cattedrali, per i nostri popoli che attraverso errori e sofferenza avevano imparato ad amarsi tra loro e a ritenersi reciprocamente complementari, per i nostri ragazzi di domani che avrebbero abbattuto le frontiere e bruciato gli inutili passaporti. Molti paesi europei avevano sognato nei secoli passati di dominare il mondo con la forza, e non c’erano riusciti: insieme, saremmo stati invincibili e saremmo riusciti a imporre al mondo non la legge della guerra, bensì quella dell’amore e della fratellanza tra i popoli.
Che cosa è andato storto, da allora? Che cosa non ha funzionato, di quel bellissimo sogno? La verità è che, nell’edificare la “casa comune europea”, abbiamo sbagliato l’ordine costruttivo. Una realtà civile e sociale si costruisce dalle fondamenta: cioè dalla riflessione storica, dalle istituzioni politiche e amministrative, dall’educazione dei giovani (quindi dalla scuola), dalla difesa. Infine il tetto: la moneta e i meccanismi finanziari. Ma noi non abbiamo avuto fino dagli Anni Cinquanta il coraggio d’innovare quel che andava innovato e di fondare quel che doveva essere fondato. Avremmo dovuto costruire l’Europa dei popoli e delle loro tradizioni: abbiamo costruito l’Europa dei governi e l’Eurolandia delle banche. Dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, del ’51, passammo alla Comunità Economica Europea nel ’52 per trasformarla a Maastricht, nel ’92, in Comunità Europea: solo allora si assunse la denominazione di “Unione Europea”, in realtà un guscio istituzionale vuoto.
Avremmo avuto bisogno di edificare giorno per giorno una coscienza civica europea, diciamo pure un “patriottismo europeo”, cominciando con il conferire uno spirito nuovo a tutte le scuole. Si sarebbe dovuto studiare una storia comune europea in grado di accompagnare le nostre storie nazionali e di conferir a ciascuno di esse il senso di una convergenza e di una complementarità nuova. Oggi la bandiera azzurro-stellata sventola su tutti gli edifici scolastici, ma non si riflette in nessun programma concreto d’apprendimento. Tornano le piccole patrie e i micronazionalismi isterici, da stadio; oppure trionfa l’individualismo sterile ed egoistico, incapace di creare valori civili.
E allora? Abbandonare tutto e dire che ci siamo sbagliati, rinunziare per tornar a un pulviscolo di stati senza forza e senza autorevolezza, vasi di coccio minacciati dai colossi internazionali e dalla potenza occulta ma formidabile delle lobbies? Adattarci a far parte di un generico “Occidente” atlantico nel quale doversi rassegnare a una funzione definitivamente subalterna? O ricominciare da capo, da ora, da subito, reinsegnando ai ragazzi del secondo decennio del XXI secolo quel che avremmo dovuto insegnar a quelli di mezzo secolo fa e imponendo nuove forme di rappresentanza politica diretta scelte dagli europei nel loro complesso, che non proiettino più sull’Unione i condizionamenti delle singole politiche nazionali? Quanto tempo perduto, quante occasioni sprecate, quante speranze gettate al vento…Eppure, non è mai troppo tardi.
* Franco Cardini è membro del comitato scientifico di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”
FONTE:http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43177